Rossini Opera Festival 2015
di Gioachino Rossini
ROSSINI OPERA FESTIVAL 2015
Pesaro, Adriatic Arena, 10 agosto 2015, prima.
Partono i celeberrimi rulli di tamburo. Segnalano un'eterogenea presenza militare sulla scena. Questo è quanto Rossini stesso ebbe a dichiarare, in diverse occasioni. Questa è la spiegazione tradizionale dell'impiego (inusuale per l'epoca) di tale strumento nella sinfonia di un'opera. Punto.
Ma potrebbe esserci un'altra spiegazione. Meno ovvia, più latente. È forse la gazza che già si fa sentire? Che preannuncia sventure? Sarà un caso, ma è così anche il verso del curioso volatile: colpi secchi in rapida successione! Forse è un caso e forse no. Nei miti nordici la gazza era nunzia degli dei ed anche l’uccello della dea della morte Hel e per questo fu considerata uccello del malaugurio. Nel medioevo, in Germania, fu ritenuta uccello delle streghe ed anche uccello del patibolo. Il compositore pesarese poteva ben essere consapevole di tutto ciò. Questo non posso affermarlo con sicurezza, per quanto io sia incline a crederlo; lascio ai suoi biografi una ricognizione sulle sue conoscenze etologiche e mitologiche.
Un letto sulla scena. Una lampada accesa. Una ragazzina fatica a prendere sonno. Tira fuori un giochino di numeri triangolari. Quindici cilindri. Deve formare un prisma equilatero di lato cinque. Facile, ma non troppo. Finalmente si addormenta e il sonno diventa sogno. Durante l'intera ouverture la ragazzina si trasforma in una creatura volante che guarda il mondo e gli uomini dall'alto. Con questa operazione, tanto semplice quanto spegnere un'interruttore, l'elefantiaco soggetto post-napoleonico, con tutti i suoi annessi e connessi, compreso l'essere tratto da un fatto di cronaca del tempo, viene risucchiato all'istante nel regno dell'irrealtà. L'uovo di colombo! Questa è l'idea alla base dello spettacolo del regista veneziano Damiano MICHIELETTO, presentato al ROF già nel 2007 (e che gli valse il premio Abbiati in quell'anno) e riproposto, pressoché identico, anche quest'anno a Pesaro. L'idea è buona, ma ci sono ancora quattro ore di musica davanti. Bisognerà anche sostenerlo questo “edificio”, in qualche modo; e mi sembra che i “mattoni”, il “coibente” non garantiscano la tenuta sul lungo termine. Sono passati otto anni. La struttura scricchiola in più punti. Ma andiamo per gradi.
Siamo abituati a questi tentativi di rendere attuali storie partorite in altre epoche e in altre società/comunità. Questo è tanto vero quando ci si accinge a (ri)portare sulla scena opere concepite centinaia di anni fa. Il problema della contemporaneità del non-contemporaneo, come qualcuno ha detto prima di noi, con espressione felice. Ciò è molto comune nei circuiti internazionali dell'Opera. In Italia il fenomeno è noto con un'espressione tipica: “Cartellone”. Quell'opera è ancora “in Cartellone”, spesso si sente dire. Questo, al pari di tanti altri fenomeni consimili, si barcamena come può tra ciò che è arte e ciò che è pura industria culturale, con un “bias”, talvolta spudorato, verso la seconda polarità. Qualche esempio arcinoto: Hollywood; Bollywood; Sanremo; gallerie e case d'asta. Ad ogni modo, per ciò che riguarda il presente testo, occupiamoci del cosiddetto “Cartellone”. Ma cos'è il “Cartellone”? Che significa? Nel dizionario troviamo quanto segue: “[...] di lavoro teatrale o film che si replica per lungo tempo con successo”. È una parola italiana. Certamente. Si tratta di un concetto ben preciso, che attiene allo specifico linguaggio di chi si occupa professionalmente di musica e di spettacoli. Sicuramente. Un’espressione direi quasi gergale; un’espressione che è in relazione con i suoi omologhi “Stagione dei concerti”, “Stagione teatrale”, “Programma”, ecc.., ma con una sfumatura di significato che la rende un po' triviale.
Ora il problema del “Cartellone” (come per i fenomeni consimili) è quello di conciliare l’esigenza (primaria) di un “ritorno” a breve termine (la vendita di abbonamenti/biglietti, il richiamo, la visibilità, suscitati da nomi importanti, artisti famosi, e così via), con l’esigenza (incidentale) di immettere nel circuito ricerca e sperimentazione in campo artistico.
Se tutto ciò è vero, e io credo che lo sia, è chiaro come gli artisti siano vincolati, a volte pesantemente, da condizioni esterne che hanno ben poco a che fare con l'arte.
Ma veniamo allo spettacolo.
Tubi giganteschi calano sulla scena. Una riproduzione in scala del giochino iniziale. Questo, almeno, è coerente. Nel resto dello spettacolo però, grazie all'espediente del sogno, il regista immette sulla la scena una quantità di segni e di ostensioni francamente difficili da connettere. Ma tanto è un sogno, quindi tutto può essere.
Musica e testo, non si possono toccare, tutto il resto sì!
I costumi. Fabrizio e Lucia restano dei possidenti in costumi ottocenteschi; Pippo in un raso giallo-cromo; Podestà e scherani in cappotti di pelle tra il punk e il fetish; Giannetto, ufficiale della marina statunitense – forse un omaggio a Puccini (!?) –; Ninetta, nel secondo atto, una strega al rogo; Fernando in un'uniforme dall'aria vagamente sovietica; i giudici con parrucche settecentesche. Tranquilli, è un sogno, tutto può essere.
Gli oggetti di scena. Brindisi con bicchieri di plastica; riproduzioni giocattolo di fucili mitragliatori; la gazza con l'iPod che balla sui 120 bpm (!?). Ah ma era un sogno, non l'avevo capito.
E poi l'acqua! All'inizio del secondo atto, una pioggia artificiale allaga tutto il palcoscenico! Tutti con l'acqua fino alle caviglie per le restanti due ore di spettacolo! Ma perché? È davvero necessario? Immagino sia questa la domanda che ha attraversato le menti degli interpreti, dei coristi e dei musicisti nel corso delle quattro repliche – senza, peraltro, che qualcuno osasse esternarla. Isciacquìi, calpestìi, sono veramente “dolci romori”, come dice il Poeta? In quel contesto? A me sembra di no, anzi mi è sembrato che disturbassero non poco l'esecuzione.
Ma forse sono io che non comprendo. Inoltre è un sogno, non dimentichiamolo.
Gli interpreti mi sono sembrati tutti vocalmente molto validi, alcuni forse troppo statici e preoccupati sulle difficoltà tecniche delle proprie parti, altri maggiormente a proprio agio nei personaggi. Particolarmente un Alex ESPOSITO/Fernando – unico, tra gli interpreti, presente anche nell'edizione di otto anni fa, nel medesimo ruolo – che quest'anno ha avuto un autentico trionfo, con applausi prolungati e ovazioni, e non solo alla fine; e Marko MIMICA, che ha interpretato magnificamente la parte dell'infame Gottardo. La precisione nei passaggi e le note gravi, solide come colonne, non hanno fatto altro che accentuare ancora di più i tratti sadici del personaggio.
Ottimi anche il coro e l'orchestra del Teatro Comunale di Bologna nelle direzioni esperte e assolutamente affidabili, rispettivamente, di Andrea FAIDUTTI e Donato RENZETTI. Due professionisti molte volte ingaggiati dal ROF.